E. Munch
Si può definire l'attacco di panico come un lasso di tempo caratterizzato da uno stato di intensa tensione e paura anche non in presenza di un reale pericolo.
Può capitare ad un Soggetto in una situazione di tranquillità o normalità di essere invaso da una sensazione di pericolo, da una idea di catastrofe incombente: l'angoscia che accompagna questa condizione è ciò che la differenzia dall'ansia diffusa o generalizzata.
Una volta vissuta questa esperienza al Soggetto resta l'incomprensione rispetto al senso e all'imprevidibilità della stessa e dunque la paura e l'angoscia che tale condizione si ripeta.
A questo punto il Soggetto di solito cerca di mettere in atto tutta una serie di comportamenti che presuppone possano evitare il ripetersi dell'attacco di panico, come per esempio evitare di trovarsi da solo in casa oppure farsi accompagnare se deve andare da qualche parte. Piano, piano l'evitamento dell'azione di qualsiasi natura essa sia rischia di portare il Soggetto a vivere una condizione di staticità che non fa altro che alimentare lo stato d'angoscia già presente.
Anche in questo caso come nell'ansia molte sono le manifestazioni sul corpo: senso di soffocamento, tachicardia, secchezza delle fauci, vertigini e ancora peggio una angoscia di morte imminente.
Curare l'attacco di panico con un intervento di tipo farmacologico non permette al soggetto di capire, di poter accedere alla verità che lo riguarda, laddove l'angoscia rappresenta l'indicatore elettivo, anche se estremamente sofferto, di qualcosa di preciso che lo riguarda.
In termini più generali potremo dire che l'aumentata incidenza di questo fenomeno nel contesto sociale attuale ha sempre più a che fare con un crollo di punti di riferimento stabili, con un grado di incertezza sempre più diffusa, con una immagine competitiva sempre più globalizzata che non tiene conto delle diversità.
In un contesto di questo genere il Soggetto rischia di non trovare le sue coordinate e dunque di vivere una condizione di alienazione.